Motivazione:
“Ritiene questo Collegio che in caso di fallimento del mandante, il mandato difensionale conferito con la procura ad litem, in considerazione delle sue peculiari caratteristiche, non sia soggetto alla disciplina del mandato in generale di cui alla L. Fall., art. 78 comma 2.
Infatti, per effetto della dichiarazione di fallimento, il mandato difensionale prestato nelle controversie non aventi natura personale per il fallito non entra né in una fase di sospensione in attesa che il curatore eserciti la facoltà di cui alla L. Fall., art. 72 – come ritenuto dal decreto impugnato – né è caratterizzato dall’ultrattività, come, invece, invocato dal ricorrente, bensì si scioglie immediatamente.
Ciò può evincersi sia dalla L. Fall., art. 43, comma 1, secondo cui il fallito perde per effetto della dichiarazione di fallimento la legittimazione processuale in tutte le controversie non aventi natura personale, sia dall’art. 43, comma 3 legge cit., secondo cui l’apertura del fallimento determina automaticamente l’interruzione dei processi (di merito) in corso.
L’ultrattività del mandato – intendendosi per tale la possibilità del difensore di continuare a compiere gli atti processuali in nome e per conto del cliente, che trova la propria fonte nel potere discrezionale del professionista di dichiarare o meno (in quella fase del giudizio) la causa interruttiva – non ha luogo in caso di dichiarazione di fallimento atteso che, proprio perché l’interruzione del giudizio di merito è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dell’evento, la stessa è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c.. (cfr. Cass. n. 9016/2018; Cass. n. 5288/2017).
Né può invocarsi il principio di ultrattività del mandato in ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nel corso di un giudizio di cassazione solo perché l’apertura del fallimento non comporta l’interruzione del giudizio di legittimità, fondandosi la mancata interruzione di tale giudizio esclusivamente sull’impulso d’ufficio che lo caratterizza (vedi recentemente Cass. n. 27143/2017).
In proposito, sin dalla lontana pronuncia delle S.U. n. 11195/1992, questa Corte ha osservato che “… l’argomento sulla cui base la dottrina e la giurisprudenza sono contrarie all’operatività dell’istituto dell’interruzione è costituito dal rilievo che il giudizio di cassazione, una volta instauratosi con la notificazione del ricorso e con il deposito dello stesso, è dominato dall’impulso d’ufficio, sicché non possono operare eventi, previsti dagli artt. 299 c.p.c. e ss., che – nel giudizio di merito ispirato al principio dispositivo – determinano l’interruzione del processo…”. Peraltro, la citata sentenza delle S.U., nel contrastare l’orientamento di quella dottrina e quella giurisprudenza che ritenevano che, in presenza degli eventi di agli artt. 299 c.p.c. e ss., l’unico mezzo attraverso cui realizzare il diritto di difesa costituzionalmente garantito fosse appunto quello di procedere all’interruzione del processo, allo scopo di consentire il ripristino dell’effettività del contraddittorio ed una efficiente rappresentanza tecnica delle parti nel processo, ha argomentato in questi termini:
Le stesse osservazioni possono farsi per il giudizio di legittimità.
E’ ben vero che in tale giudizio, dominato dall’impulso d’ufficio, esistono una serie di attività che presuppongono la presenza del difensore, ma la circostanza che il legislatore non abbia previsto, proprio per tale motivo, la rilevanza degli eventi di cui all’art. 299 c.p.c. e ss., non induce né ad applicare in via analogica le norme predette, ostandovi il divieto dell’art. 14 preleggi, né ad affermare l’incostituzionalità di tale mancata previsione, dovendosi invece ritenere che la struttura del giudizio di legittimità impone un particolare onere di attenzione per la parte, sicché è da dire che la mancata osservanza di quest’onere, per fatti relativi al procuratore come nel caso di specie – ricadono sulla parte stessa che non si è attivata per ovviare alle conseguenze derivanti da eventi che essa avrebbe potuto e dovuto conoscere…”.
Emerge quindi con chiarezza dall’insegnamento della citata pronuncia, le cui conclusioni sono state (anche tralaticiamente) confermate in tutte le pronunce successive fino ai nostri giorni, che la mancata interruzione del giudizio di legittimità a seguito del verificarsi di uno degli eventi di cui all’art. 299 c.c. e ss. o della L. Fall., art. 43 non dipende affatto dalla dedotta (dal ricorrente) ultrattività del mandato difensivo – che è invece venuto inesorabilmente meno – ma dall’impulso d’ufficio di tale giudizio, la cui struttura impone a ciascuna parte (privata della assistenza tecnica) un particolare onere di attenzione, gli effetti della cui inosservanza ricadono sulla stessa parte.
Ne consegue che, a seguito della dichiarazione di fallimento intervenuta nel giudizio di legittimità, il legale cui era stato precedentemente conferito mandato ad litem, proprio perché (nelle controversie non aventi natura personale del fallito) è definitivamente venuto meno il rapporto professionale che lo legava alla parte assistita, non ha più alcun titolo per proseguire la propria attività difensiva.
È quindi priva di pregio l’affermazione del ricorrente secondo cui al comportamento omissivo posto in essere dal curatore (dopo essere stato notiziato della pendenza del giudizio di cassazione in cui patrocinava lo stesso ricorrente) non potrebbe attribuirsi altro significato se non la volontà di prosecuzione dell’incarico.
Tale assunto si pone, altresì, in netto contrasto con la disciplina del mandato al procuratore legale del fallimento prevista dalla legge fallimentare (vedi L. Fall., artt. 25 e 31), che costituisce una fattispecie complessa di procura alle liti che si perfeziona con il concorso di tre distinti atti, uno (solo) dei quali – a seguito della riforma del diritto fallimentare del 2006 – è demandato alla competenza del giudice delegato (autorizzazione a stare a giudizio, da concedersi per ogni grado) e gli altri due alla competenza del curatore (nomina e rilascio della procura al difensore).
L’incarico al legale che patrocinava la società poi fallita prima della dichiarazione di fallimento non può quindi attribuirsi certo per effetto del comportamento omissivo del curatore, il quale, come sopra anticipato, non è comunque dotato di capacità processuale autonoma, essendo questa integrata dall’autorizzazione del giudice delegato (vedi Cass. n. 26359/2014).
Accertato quindi che il legale nominato dalla società (poi fallita) quando era ancora in bonis non ha titolo per richiedere il compenso per l’attività giudiziale eventualmente prestata una volta intervenuto il fallimento – anche se tale attività è stata prestata in sede di legittimità – va, tuttavia, osservato che non può condividersi la valutazione dei giudici di merito di ultratardività del credito insinuato dal legale (che era dovuto quantomeno per l’attività difensiva svolta prima della dichiarazione di fallimento).
Infatti, tenuto conto che non constano precedenti specifici sulla questione che ha formato oggetto del presente procedimento e che il caso esaminato dai giudici di merito presentava la peculiarità che il legale ricorrente aveva continuato a patrocinare nell’ambito di un giudizio di cassazione – che non si interrompe per effetto della dichiarazione di fallimento – deve ritenersi che il ritardo da parte del ricorrente nella presentazione dell’istanza di insinuazione allo stato passivo fosse allo stesso non imputabile.
Il ricorrente, infatti, confidando che il suo mandato difensivo non si fosse sciolto per effetto della dichiarazione di fallimento, non ha immediatamente presentato l’istanza di insinuazione per il credito maturato fino alla dichiarazione di fallimento ritenendo erroneamente, ma in una materia che non era stata ancora esplorata – che il suo mandato difensivo fosse cessato solo in coincidenza della conclusione del giudizio di cassazione.
Deve quindi cassarsi la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Siracusa, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.
5. Il secondo ed il terzo motivo sono assorbiti”.